giovedì 9 agosto 2012

Il pavimento cosmatesco dell'Abbazia di San Nilo a Grottaferrata


I RESTI COSMATESCHI DELL’ABBAZIA DI SAN NILO A GROTTAFERRATA


Se provate a fare una ricerca in internet, ma anche nei principali libri d’arte ed enciclopedie, sui resti delle opere cosmatesche oggi preservate nell’abbazia di San Nilo a Grottaferrata, probabilmente rimarrete molto delusi per via dell’esiguità delle informazioni. In effetti, a causa della totale mancanza di una specifica documentazione storica che attesti sia il passaggio dei marmorari romani, o di altra regione, in quel luogo, sia le vicende che le loro opere subirono nel corso dei secoli, è difficile poter dire qualcosa di più di una superficiale descrizione di quanto rimane del mirabile arredo musivo e architettonico medievale. Così, è facile che il lettore oggi trovi solo frasi del tipo “delle opere medievali si conservano solo una parte dell’originale pavimento cosmatesco nella chiesa di Santa Maria e alcuni resti dell’arredo liturgico”. Non ci credete? Facciamo un esempio che forse vale per tutti: ecco come scrive L. Morganti nel suo autorevole articolo sull’Abbazia di Grottaferrata pubblicato nell’Enciclopedia dell’Arte Medievale Treccani nel 1996: “al 1282 (Andaloro, 1983, pp. 255-256, n. 28) risalgono invece l'innalzamento della navata e un restauro della chiesa, comprendente anche il pavimento cosmatesco, conservato ancora oggi nella zona del presbiterio e nella navata centrale”. E questo è quanto! Non così, ovviamente per le altre opere, come il mosaico nella lunetta del portale, o delle strutture architettoniche che invece vengono descritte con maggiori dettagli.  Dalla frase riportata da Morganti, sembra che insieme ad Andaloro concordino nel datare l’innalzamento del piano della navata, e di conseguenza il pavimento cosmatesco conservato nella navata centrale, al 1282. Chi conosce bene la storia dei Cosmati e dei marmorari laziali o campani, non può accettare questa tesi perchè il 1282 è un anno che sta troppo avanti rispetto alle caratteristiche stilistiche mostrate dalla porzione di pavimento cosmatesco nella navata centrale. Ma di questo parleremo tra poco.
L’unica autrice che ha dettagliato sull’argomento è, a mia conoscenza, Dorothy Glass, dalla cui opera Studies on Cosmatesque Pavements, pubblicata nel 1980, non si può prescindere per ogni analisi, studio fattivo e ipotesi che riguardino i pavimenti cosmateschi. E sarà per noi come la bibbia degli archeologi, l’Iliade di Schliemann per la scoperta di Troia. Ma prima di Glass, altri autori hanno descritto nei particolari la storia della “Badia di Grottaferrata” e le difficoltà nel ricostruirne le vicende storiche e soprattutto architettoniche dovute agli innumerevoli interventi subiti a seguito di danni per eventi calamitosi e distruzioni di guerre è nettamente ravvisabile nelle chiare parole di A. Rocchi (La Badia di S. Maria di Grottaferrata, Roma, 1884 pag. 52): “Dopo le mille variazioni sostenute nel decorso di otto secoli e mezzo, è malagevole assunto il darne una vera descrizione”. Lo stesso autore, a pag. 58, così accenna ai resti del pavimento cosmatesco: “Oltre a cotesto sfoggio di pittura e di mosaico ad immagini, quest’epoca, od altra a lei prossima (fine XII, inizio XIII secolo, nda), ci segnala un grande sfarzo di mosaico ad ornato, come in altari, così in pavimenti e spesso in stile vermiculato bizantino. Dei quali si possono vedere buoni avanzi nonché dentro il presbiterio, o solèa del vima, e sotto la predella dell’altare di San Nilo, ma nel mezzo della chiesa rasente la balaustrata, sul quale strato era, come sempre, il cosiddetto coro grande, appunto innanzi i cancelli oggi sostituiti dai balaustri. Tra questo tessellato e la porta aurea giace in piano un disco, di quei che nel medio evo si dicevano rotae, di m. 2,50 di diametro tutto di porfido, che dicono fosse già d’un sol pezzo, poscia screpolato a bella posta, chè i Francesi della prima Repubblica pansavano tòrlo via. Di presso vi avea nel 1300 anche il grand’ambone o suggesto pel canto del sacro Vangelo, e se ne conservano dei frammenti”. Cesario Mencacci, nel 1875, non aggiunge nulla di nuovo nel suo libro Cenni storici della Badia di S. Maria di Grottaferrata, dicendo che “il pavimento della Chiesa era, come ancora osservasi, messo inverso l’altare a musaico di marmi con un di quei lavori vermicolati, che diconsi di opera alessandrina; e presso la porta è coperto da un gran disco di porfido di molto prezzo”. Come dicevo prima, chi ha scritto di più sui resti cosmateschi della badia di Grottaferrata è Dorothy Glass ed anche lei rimarca il fatto che nessuno ha mai scritto in dettaglio sullo specifico argomento. In quattro righe ripercorre la cronologia principale degli eventi che trasformarono la chiesa e questi possono riassumersi come segue: fu consacrata nel 1205 e in seguito distrutta dalle truppe di Roberto il Guiscardo e del Barbarossa; l’abbazia fu abbandonata tra l 1163 e il 1191. Nel 1577 il Cardinale Alessandro Farnese fece eseguire un totale rinnovamento distruggendo l’abside medievale con uno nuovo. Nel 1754 il Cardinale Gianantonio Guadagni eseguì un altro totale rinnovo dell’interno della chiesa. Altri restauri furono eseguiti nel 1910 e nel 1930. Secondo Glass, il rettangolo pavimentale che si conserva al centro della navata è l’unico resto originale dell’antica schola cantorum che si trovava in quell’area e rappresenterebbe stilisticamente le innovazioni introdotte dai marmorari romani della famiglia di Giovanni Ranuccio nella metà del XII secolo, derivate dai pavimenti bizantini di cui si vede qualche esempio nella chiesa di S. Giovanni in Studion e nel monastero di Iviron sul Monte Athos. Infine, tenta la datazione scrivendo: “Sembra che la delicatezza del lavoro sia più riferibile al XIII  che al XII secolo”. I resti di lastre musive che si trovano oggi nel pavimento del nartece, davanti all’ingresso della chiesa, vengono associati al rettangolo pavimentale della navata, ma Glass avanza l’ipotesi che tali pezzi siano solo il resti di uno smantellato ambone e dell’antico arredo persbiteriale, piuttosto che parti del pavimento originale e ricorda che altri pezzi simili sono conservati nel museo dell’abbazia. Inoltre Glass mette in evidenza nella nota 5 che da antiche foto si può vedere che i frammenti oggi inseriti nel pavimento del nartece, nel XIX secolo si trovavano attaccati nel muro del cortile del monastero.
Esaurite le notizie di archivio, tocca a me dire qualcosa di nuovo. Il riquadro pavimentale che sta nel centro della navata ha conosciuto la stessa sorte toccata alla maggior parte dei pavimenti cosmateschi romani, del Lazio e della Campania. Può darsi che sia un riquadro che in origine stava in quel luogo, ma la notizia che nel 1282 si ebbe un innalzamento della navata della chiesa, è una dimostrazione chiara che tutto l’antico pavimento cosmatesco (si, perchè quello originale risale certamente a prima del 1282, nella mia opinione a un’epoca compresa tra il 1160 e il 1210) dovette essere spicconato, o demolito, quando non distrutto dalle devastazioni calamitose e belliche. Lo stato del riquadro, nei dettagli, mostra le stesse caratteristiche dei pavimenti romani ricostruiti tra il XVII e il XVIII secolo. Ovviamente deve trattarsi di una ennesima ricostruzione dato che il pavimento originale fu distrutto nel 1282. Ciò risulta chiaro da alcune caratteristiche comuni con gli altri monumenti che hanno subito la stessa sorte, come l’impiego di fasce marmoree bianche frammentate, di diversa tipologia ed epoca; dal superficiale lavoro di intarsio del tessellato cosmatesco; dalla mescolanza di motivi geometrici su una stessa linea musiva; dalla diversità delle tessere musive impiegate in quanto formate da una parte di materiale originale riusato e da una parte più moderna introdotta nei vari restauri; dalla importante constatazione di assenza pressoché totale della simmetria policroma nella disposizione musiva delle tessere, condizione essenziale dei lavori cosmateschi originali, e via dicendo. Sebbene Glass associ il motivo di “girale cosmatesca” che avvolge i dieci dischi di porfido del riquadro pavimentale, alla famiglia dei Ranuccio, io ravviso che tale disegno era comune anche nella famiglia di Iacopo di Lorenzo, come dimostrano i molti elementi simili nelle loro opere. Le fasce marmoree bianche spesso sono leggermente ricurve, e il piano del tessellato ne risulta a tratti ondulato; caratteristica comune al pavimento cosmatesco del Sancta Sanctorum al Laterano, secondo le mie ipotesi ricostruito nel XVI secolo. Lo stile classico romano di queste girali “cosmatesche”, riferibili alla componente locale romana, esclude l’influenza bizantina e cassinese nel riquadro di Grottaferrata, segno che i marmorari romani furono chiamati a lavorare qui, forse al tempo in cui transitò spesso nel monastero papa Innocenzo III, che fu uno dei più importanti mecenati dell’arte cosmatesca. La grande ruota di porfido, ora in frammenti, è ultimo fedele testimone, invece, della grandiosità delle opere cosmatesche che un tempo ornavano questa chiesa.

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