I RESTI
COSMATESCHI DELL’ABBAZIA DI SAN NILO A GROTTAFERRATA
Se provate a fare una ricerca in internet, ma anche nei principali libri
d’arte ed enciclopedie, sui resti delle opere cosmatesche oggi preservate
nell’abbazia di San Nilo a Grottaferrata, probabilmente rimarrete molto delusi
per via dell’esiguità delle informazioni. In effetti, a causa della totale
mancanza di una specifica documentazione storica che attesti sia il passaggio
dei marmorari romani, o di altra regione, in quel luogo, sia le vicende che le
loro opere subirono nel corso dei secoli, è difficile poter dire qualcosa di
più di una superficiale descrizione di quanto rimane del mirabile arredo musivo
e architettonico medievale. Così, è facile che il lettore oggi trovi solo frasi
del tipo “delle opere medievali si
conservano solo una parte dell’originale pavimento cosmatesco nella chiesa di
Santa Maria e alcuni resti dell’arredo liturgico”. Non ci credete? Facciamo
un esempio che forse vale per tutti: ecco come scrive L. Morganti nel suo autorevole
articolo sull’Abbazia di Grottaferrata pubblicato nell’Enciclopedia dell’Arte
Medievale Treccani nel 1996: “al 1282
(Andaloro, 1983, pp. 255-256, n. 28) risalgono
invece l'innalzamento della navata e un restauro della chiesa, comprendente
anche il pavimento cosmatesco, conservato ancora oggi nella zona del
presbiterio e nella navata centrale”. E questo è quanto! Non così,
ovviamente per le altre opere, come il mosaico nella lunetta del portale, o
delle strutture architettoniche che invece vengono descritte con maggiori
dettagli. Dalla frase riportata da Morganti,
sembra che insieme ad Andaloro concordino nel datare l’innalzamento del piano
della navata, e di conseguenza il pavimento cosmatesco conservato nella navata
centrale, al 1282. Chi conosce bene la storia dei Cosmati e dei marmorari
laziali o campani, non può accettare questa tesi perchè il 1282 è un anno che
sta troppo avanti rispetto alle caratteristiche stilistiche mostrate dalla
porzione di pavimento cosmatesco nella navata centrale. Ma di questo parleremo
tra poco.
L’unica autrice che ha dettagliato sull’argomento è, a mia conoscenza,
Dorothy Glass, dalla cui opera Studies on
Cosmatesque Pavements, pubblicata nel 1980, non si può prescindere per ogni
analisi, studio fattivo e ipotesi che riguardino i pavimenti cosmateschi. E
sarà per noi come la bibbia degli archeologi, l’Iliade di Schliemann per la scoperta di Troia. Ma prima di Glass,
altri autori hanno descritto nei particolari la storia della “Badia di Grottaferrata”
e le difficoltà nel ricostruirne le vicende storiche e soprattutto
architettoniche dovute agli innumerevoli interventi subiti a seguito di danni
per eventi calamitosi e distruzioni di guerre è nettamente ravvisabile nelle
chiare parole di A. Rocchi (La
Badia di S. Maria di Grottaferrata, Roma, 1884 pag. 52): “Dopo le mille variazioni sostenute nel
decorso di otto secoli e mezzo, è malagevole assunto il darne una vera
descrizione”. Lo stesso autore, a pag. 58, così accenna ai resti del
pavimento cosmatesco: “Oltre a cotesto
sfoggio di pittura e di mosaico ad immagini, quest’epoca, od altra a lei
prossima (fine XII, inizio XIII secolo, nda),
ci segnala un grande sfarzo di mosaico ad
ornato, come in altari, così in pavimenti e spesso in stile vermiculato
bizantino. Dei quali si possono
vedere buoni avanzi nonché dentro il presbiterio, o solèa del vima, e sotto la predella dell’altare di San Nilo, ma nel mezzo della chiesa
rasente la balaustrata, sul quale strato era, come sempre, il cosiddetto
coro grande, appunto innanzi i cancelli
oggi sostituiti dai balaustri. Tra questo tessellato e la porta aurea giace in
piano un disco, di quei che nel medio evo si dicevano rotae, di m. 2,50 di diametro tutto di porfido, che
dicono fosse già d’un sol pezzo, poscia screpolato a bella posta, chè i
Francesi della prima Repubblica pansavano tòrlo via. Di presso vi avea nel 1300
anche il grand’ambone o suggesto pel canto del sacro Vangelo, e se ne
conservano dei frammenti”. Cesario Mencacci, nel 1875, non aggiunge nulla
di nuovo nel suo libro Cenni storici
della Badia di S. Maria di Grottaferrata, dicendo che “il pavimento della Chiesa era, come ancora osservasi, messo inverso
l’altare a musaico di marmi con un di quei lavori vermicolati, che diconsi di
opera alessandrina; e presso la porta è coperto da un gran disco di porfido di
molto prezzo”. Come dicevo prima, chi ha scritto di più sui resti
cosmateschi della badia di Grottaferrata è Dorothy Glass ed anche lei rimarca
il fatto che nessuno ha mai scritto in dettaglio sullo specifico argomento. In
quattro righe ripercorre la cronologia principale degli eventi che
trasformarono la chiesa e questi possono riassumersi come segue: fu consacrata
nel 1205 e in seguito distrutta dalle truppe di Roberto il Guiscardo e del
Barbarossa; l’abbazia fu abbandonata tra l 1163 e il 1191. Nel 1577 il
Cardinale Alessandro Farnese fece eseguire un totale rinnovamento distruggendo
l’abside medievale con uno nuovo. Nel 1754 il Cardinale Gianantonio Guadagni
eseguì un altro totale rinnovo dell’interno della chiesa. Altri restauri furono
eseguiti nel 1910 e nel 1930. Secondo Glass, il rettangolo pavimentale che si
conserva al centro della navata è l’unico resto originale dell’antica schola cantorum che si trovava in
quell’area e rappresenterebbe stilisticamente le innovazioni introdotte dai
marmorari romani della famiglia di Giovanni Ranuccio nella metà del XII secolo,
derivate dai pavimenti bizantini di cui si vede qualche esempio nella chiesa di
S. Giovanni in Studion e nel monastero di Iviron sul Monte Athos. Infine, tenta
la datazione scrivendo: “Sembra che la
delicatezza del lavoro sia più riferibile al XIII che al XII secolo”. I resti di lastre
musive che si trovano oggi nel pavimento del nartece, davanti all’ingresso
della chiesa, vengono associati al rettangolo pavimentale della navata, ma Glass
avanza l’ipotesi che tali pezzi siano solo il resti di uno smantellato ambone e
dell’antico arredo persbiteriale, piuttosto che parti del pavimento originale e
ricorda che altri pezzi simili sono conservati nel museo dell’abbazia. Inoltre
Glass mette in evidenza nella nota 5 che da antiche foto si può vedere che i
frammenti oggi inseriti nel pavimento del nartece, nel XIX secolo si trovavano
attaccati nel muro del cortile del monastero.
Esaurite le notizie di archivio, tocca a me dire qualcosa di nuovo. Il
riquadro pavimentale che sta nel centro della navata ha conosciuto la stessa
sorte toccata alla maggior parte dei pavimenti cosmateschi romani, del Lazio e
della Campania. Può darsi che sia un riquadro che in origine stava in quel
luogo, ma la notizia che nel 1282 si ebbe un innalzamento della navata della
chiesa, è una dimostrazione chiara che tutto l’antico pavimento cosmatesco (si,
perchè quello originale risale certamente a prima del 1282, nella mia opinione
a un’epoca compresa tra il 1160 e il 1210) dovette essere spicconato, o
demolito, quando non distrutto dalle devastazioni calamitose e belliche. Lo
stato del riquadro, nei dettagli, mostra le stesse caratteristiche dei
pavimenti romani ricostruiti tra il XVII e il XVIII secolo. Ovviamente deve
trattarsi di una ennesima ricostruzione dato che il pavimento originale fu
distrutto nel 1282. Ciò risulta chiaro da alcune caratteristiche comuni con gli
altri monumenti che hanno subito la stessa sorte, come l’impiego di fasce marmoree
bianche frammentate, di diversa tipologia ed epoca; dal superficiale lavoro di
intarsio del tessellato cosmatesco; dalla mescolanza di motivi geometrici su
una stessa linea musiva; dalla diversità delle tessere musive impiegate in
quanto formate da una parte di materiale originale riusato e da una parte più
moderna introdotta nei vari restauri; dalla importante constatazione di assenza
pressoché totale della simmetria policroma nella disposizione musiva delle
tessere, condizione essenziale dei lavori cosmateschi originali, e via dicendo.
Sebbene Glass associ il motivo di “girale cosmatesca” che avvolge i dieci
dischi di porfido del riquadro pavimentale, alla famiglia dei Ranuccio, io
ravviso che tale disegno era comune anche nella famiglia di Iacopo di Lorenzo,
come dimostrano i molti elementi simili nelle loro opere. Le fasce marmoree
bianche spesso sono leggermente ricurve, e il piano del tessellato ne risulta a
tratti ondulato; caratteristica comune al pavimento cosmatesco del Sancta Sanctorum al Laterano, secondo le
mie ipotesi ricostruito nel XVI secolo. Lo stile classico romano di queste
girali “cosmatesche”, riferibili alla componente locale romana, esclude
l’influenza bizantina e cassinese nel riquadro di Grottaferrata, segno che i
marmorari romani furono chiamati a lavorare qui, forse al tempo in cui transitò
spesso nel monastero papa Innocenzo III, che fu uno dei più importanti mecenati
dell’arte cosmatesca. La grande ruota di porfido, ora in frammenti, è ultimo
fedele testimone, invece, della grandiosità delle opere cosmatesche che un
tempo ornavano questa chiesa.
Per la galleria fotografica visita:
http://cosmati.wordpress.com
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